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lirik lagu il non-illuminato – uochi toki

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in questo momento, per terra: pietra, lastrico, arte vecchia. lontano, dirimpetto: il corvo grigio. il suo rispetto evita il discorso. salsedine (sedie) nelle strade. pensiero elementale: pietra, acqua, barca, gente in festa. sono in piedi, sono seduto. no, sono in piedi. cosa faccio? guardo gente. inversione: mi guardano, tutti e cinquemila e quattrocento. approssimativo il mio calcolo delle persone presenti in questa piccola piazza. ho cercato di contare una folla. a cosa mi serve? anzi: dove sei? dietro quella colonna non ho ancora guardato. una colonna di acciaio temprato e trasparente mi contiene, mi divide completamente da una quant-tà di gente. se qualcuno mi dovesse avvicinare, anche da ubriaco capirebbe che ho corso. sono già stato scoperto, eppure continuo a mantenere il sospetto. se tu mi avessi visto correre chissà cosa avresti pensato: “no, di nuovo?”. capisco, è più importante incontrarti per confermare i miei sospetti anziché incontrarti e basta

un minuto fa cercavo la parte più alta della piazza. aguzzavo la vista – e sono miope. volevo superare il limite fisico dell’occhiale, guardare oltre, scansare i portici, decolorare le zone già indagate, ma già stavo male: facevo fatica a contare. le operazioni di curvatura dello spazio riescono quando sono sereno, ed io premevo in questo luogo con le case troppo vicine, queste impervie condizioni abitative. città oscura. sono in grado di trovare una persona in una piccola città solo quando è lei che voglio trovare, solo quando il caso non mi dice che sto facendo male. “stai zitto! tieni separato il piano immaginario da quello pratico!”. troppo tardi, e non è mai presto, anzi: non è mai. sta di fatto che ci sono bancarelle ed impianti con musiche diverse, gente che entra ed esce. sto mantenendo un numero di comportamenti artificiali che va oltre le mie possibilità reali. se non è successo qualcosa vuol dire che sono io l’illuso di via del campo. quali di questi aggettivi mi sta meglio? due punti: mi arrendo. vorrei sp-ccare qualcosa e dopo un secondo non più
quattro minuti fa il mio cappotto era di troppo. stavo correndo. orientarmi in posti che non conosco mi riesce davvero bene. lo dici solo per coprire altre voci che bisbigliano. tanto non serve. vedremo. vedremo l’immagine di un ponte e di un incontro illuminante taumaturgico. il suono rotondo ed inerziale di ipotesi e conclusioni che combaciano. “cos’hai detto?”. niente. non ti fermare. stai zitto anche tu e ricordati l’ultima volta che hai corso. tra un po’ sarà tutto finito. tornerò composto. tornerò temperato. porrò fine a questo slancio che mi sono inventato. un abbraccio forse, sicuro una stretta di mano. un saluto, un discorso, un incontro delizioso. scalini, archi, chiavi di volta. mi ha dato di volta il cervello. non sei tranquillo, stai correndo: parapetto. non sei tranquillo, stai correndo: pasticceria chiusa. non sei tranquillo, stai correndo: scendo una scalinata. non sei tranquillo: eccomi. la piazza è questa: è piena. faccio una telefonata. ascoltatore, non so quali siano i momenti in cui provi più dispiacere. vedendo morire parenti o sentendo bambini gridare. o che altro? non so. sono situazioni estreme, che si verificano raramente. quello che avviene spesso e che ha lo stesso potere di dispiacerti sono avvenimenti che sono solo dei riferimenti a queste situazioni estreme, giustamente dolorose. per questo comprendimi. è spento. mancanza, stupidità, vuoto nello stomaco e rabbia perché sto provando le stesse cose che gli altri provano. e rabbia alla seconda perché non dovrei. divento ancora più scemo. respiro affannoso. osserverò i presenti uno per uno. locali pieni fuori e dentro. dentro di me voci. ormai è andato. ormai è andato. ormai è andato

quindici minuti fa mentivo, anzi, plasmavo i costrutti di una situazione cambiando gli aspetti di urgenza, innestando una parvenza umoristica alla faccenda. esco, vado a fare merenda: voglio una torta. persone con cui non sono ancora entrato in confidenza mi fanno notare che alle due e mezza non posso trovare una pasticceria aperta. è una risposta semi-sonnolenta. la ignoro chiudendo furtivo una porta. esco di fretta. una voglia astratta coperta da una falsa voglia pratica -ssurda. quello che cerco è ancora più improbabile che trovare torte alle due di notte. potrebbe farti ridere perché lo ritieni impossibile, per me invece è solo molto difficile. alla fine riesco sempre a trovare quello che cerco, ma stanotte no, mi sto sbagliando e me ne accorgo perché mento e affretto il p-sso. l’improbabilità di un’ipotesi è esponenzialmente proporzionale all’improbabilità delle menzogne che invento per farla verificare

trenta minuti fa ricevevo indicazioni spazio-temporali che decostruivano il mio senso dell’ordine. tutte le persone conosciute nei giorni precedenti, ordinate nello scaffale, cl-ssificate per comportamenti. segnali, prossemica, scelta delle parole. dallo scaffale più alto tu pratichi mosse repentine per sfuggire alla cl-ssificazione, mi costringi ad ampliare ogni tuo dato -n-lizzabile, ad abbandonare le mie immaginarie pagine. mi tocca scendere in strada a cercarti per dettagliarti. sono curioso. nel mio caso, il momento di piacere m-ssimo è quando mi rivolgi la parola ed io non me lo aspetto più che il tuo aspetto, il contatto o quello che i miei consessanei si aspettano. è vergognoso e inaccettabile che un ragazzo di ventisei anni pensi all’ordine, alla sorpresa, alla presenza, all’estetica pura quando i suoi contemporanei inseguono gli elementi meno soddisfacenti come sesso e sentimenti. a dire il vero non riesco a dare nomi a ciò che inseguo. non sono ricerche collaudate. il valore di un mio errore non sta nei tentativi multipli, ma nell’occasione, nel momento di contrasto volontario o involontario, nell’utilizzo di spiegazioni -ssolutamente non necessario. uno spreco in questo caso, perché tra trenta minuti noi non ci incontriamo

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