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lirik lagu stabat mater dolorosa – miike takeshi

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[strofa]
quel legno infuocato esasperava il lamento
chi ne fu cullato sarebbe nato ma a stento
a tentoni, camminando tra le polveri
le coltri, scaltri sedicenti, recalcitranti, in fondo poveri
poveri senza lui, ancora di più -ssieme a lui
luigi e le sue brame scarnificate e le vene
pulsanti sotto la pioggia battente di grida
gioirono, morirono ma la morte fu panacea
la morte fu monumento, dea ideata
rea perché arrogata la sant-tà corroborata da un’idea
idealmente mea culpa, per la polpa rossa
ressa, calca sulla guglia, ragguagli sulla carta
nel venire, vieni re e rinvieni me accasciato al suolo
il mio sguardo è fin troppo lucido ma è d’uopo
ch’io t’accolga mio archetipo innato
archè tipico per il mio sangue fluente come energia
nel mio emaciato sepolto petto
dalla carne che abbonda, abbandonala nel canto
in alto lo sguardo rivolto
è saldo il piede ancorato a terra, legato
i lacci lacerano la pelle
ma il dolore è vivo rivolo che scorre tra procelle
suoni forano i timpani, timpani forati da suoni
uomini indomiti poggiano il capo su aridi suoli
soli che seccarono le labbra non più confacenti alla parola
alla parabola, al desinare dell’intelletto
eletto reietto, contratto al trotto d’equino per lungo tratto
strattonato e poi abbandonato sul letto del fiume
da una fiumana di rifiuti accompagnato per mano
amano e gemono, chiamano e dimenano, di meno non v’è
veridicità acida ci da agitazione, corpuscolo immenso
muscolo teso indefesso non ti sforzare
nel senso: do un senso al non senso
sensazionalizzando ciò che sento
quindi mi esento dall’ascoltarmi
e se tento rantolo come la croce e gli astanti che piansero
e giunsero al confine tra respiro e negazione
negando l’azione con l’occhio a mo’ di rimozione
contrazione nella contrizione
detrazione del momento storico
afflizione nel commento agonico
che rifulse sugli animi, unanimi volti esanimi
esaminanti il baratro arretrando, ma il p-sso è nullo
satollo il ventre sventrato dalle contumelie
scese dal legno e camminò adagiando sulle camelie il capo
apologeta dell’abbaglio più abbacinante della storia risaputa
ad insaputa sputala d’accapo
e li vidi -ssieme, abbracciati, dio e il padre profeta
l’astrazione non ha immagine, ma feci l’esegeta
il pittore, dipinsi quelle sculture
scolpii quei dipinti intingendo nelle pupille le dita impure
e fu tutto bianco, latte allettante allattante
una gola secca in cerca di riposo e caldo
gemetti alle loro carezze, care brezze
e temetti di perderle, adunanze di certezze
riverse sotto le ciglia che cucii
per amare di pieno amore la mano che attorciglia
il collo così fragile che mi fa pena
ma appena l’omuncolo s’attiva
avvita il chiodo nella cancrena
incrinando il rapporto già instabile tra me e dio
me ed io, idioletto occultato dal tramestio
-ssordante, venite voi due
accomodatevi alla mia tavola
intavoliamo una discussione tra tante
è tracotante, il costato accostatomi
costato da quel che ho constatato un taglio incostante
dal quale zampillò l’odio del mondo

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